Idee per la ripresa di Torino e del Piemonte

L’emergenza sanitaria coglie la nostra Regione e il suo capoluogo in una fase difficile della loro storia. I profondi cambiamenti della struttura produttiva, e in particolare di quella industriale, pongono il problema di individuare una nuova prospettiva, che richiede idee e risorse straordinarie. Molti ne stanno discutendo, nelle sedi accademiche, dell’informazione, delle forze sociali e della cultura. Anche la Fondazione Carlo Donat-Cattin avvia un forum di discussione sui temi del futuro economico e sociale di Torino e del Piemonte. Per cominciare abbiamo posto tre domande ad economisti, imprenditori, amministratori e dirigenti politici e sindacali. Pubblicheremo le loro risposte e proseguiremo allargando la rassegna di opinioni con interviste, articoli e segnalazioni.

Giovanni Fracasso

Imprenditore,
Co-founder President di Dooh.it,
Presidente di Piccola Industria

 

Domande a Giovanni Fracasso

Una rivoluzione copernicana nella formazione e nel lavoro per salvare il Paese

Giovanni Fracasso, imprenditore di prima generazione, già ricercatore poi manager dell’innovazione nel Gruppo Telecom, è co-founder President di Dooh.it, pmi innovativa, una delle più interessanti ed evolute realtà italiane nel campo della comunicazione digitale, con particolare focalizzazione sul settore Out Of Home, oggi inserito nel gruppo Scai dal 2017 è presidente di Piccola Industria organo di rappresentanza delle pmi associate all’Unione Industriale di Torino.

Quali emergenze investono il Piemonte e quali settori richiedono interventi rapidi e straordinari?

Le emergenze che investono la nostra Regione sono le stesse alle quali è sottoposto l’intero Paese e si innestano, nel nostro caso, su di un Territorio già in larga parte sofferente per una crisi di lungo corso. Non dimentichiamoci che Torino è stata riconosciuta Area di Crisi Complessa già più di un anno fa.  Abbiamo l’emergenza sanitaria, che trova nel Piemonte una regione ricca di eccellenze ma proveniente da almeno un decennio di tagli alla spesa, ottenuti spesso azzerando o riducendo la sanità di prossimità e concentrando tutte le risorse nelle grandi strutture. In tempo di pace un approccio simile sembrava ragionevole, oggi ci accorgiamo della sua debolezza.

Abbiamo l’emergenza del lavoro: un quadro nazionale che registra un calo della produzione industriale del 50% a marzo e aprile, dato mai raggiunto in nessun evento bellico; nella nostra regione i dati di Confindustria ci parlano di un 33% circa di ore lavorate e fatturati persi nel primo trimestre. Nel primo trimestre! Ricordo che il lockdown è iniziato soltanto a marzo.

Aggiungerei, troppo spesso dimenticata, l’emergenza del mondo della scuola, che ha dovuto reinventarsi un modo per portare a termine l’anno scolastico e accademico.

A tutto ciò dobbiamo rispondere con azioni di contenimento per l’immediato, ma tenendo sempre un approccio di lungo respiro, altrimenti sposteremmo solo i problemi di poco più avanti nel tempo.

Se in sanità la sfida COVID ha la massima priorità, occorre contemporaneamente riprogettare e reimplementare il sistema sanitario regionale, perché le altre patologie non spariranno, anzi, torneranno più di prima dopo mesi che la risposta alla situazione emergenziale le ha necessariamente compresse ai margini delle priorità di trattamento.

Per la scuola si sono tamponati questi mesi improvvisando una specie di didattica a distanza ma la vera preoccupazione è che di qui a settembre non si faccia nulla per consentire un adeguato avvio delle lezioni; francamente devo dire che i recenti interventi del Ministro Azzolina non solo non rasserenano, ma anzi esasperano questa preoccupazione.

Il lavoro: prima che l’emergenza si cronicizzi e diventi emergenza sociale occorre intervenire su tutto il tessuto produttivo: non ci sono settori esenti, non ci sono fasi della filiera distributiva esenti. A poco serve rendere possibile la ripartenza della produzione in fabbrica se non riparte la domanda aggregata.  Devono poter riaprire le grandi come le piccole aziende industriali ma anche gli esercenti, canale di vendita per il mondo Business to Consumer. Un pensiero speciale va poi fatto per le realtà del turismo e della cultura, che hanno perso e perderanno ricavi che non potranno mai recuperare. Le nostre montagne già si mantenevano vive a fatica con il turismo ante crisi, non oso pensare a che cosa potrebbe accadere se perdessimo la prossima stagione sciistica.

Come recuperare finanziamenti per questi settori da governo, regione, banche e privati?

Occorre mobilitare tutte le energie disponibili e adottare approcci di ampio respiro e coordinati. Al momento vedo molta confusione e altrettanta demagogia. Faccio un esempio: a poco servono le garanzie statali per le imprese se non si interviene sulla normativa per l’incauto affidamento. Nessun funzionario di banca si prenderà la responsabilità di erogare finanziamenti, ancorché garantiti dallo Stato, se alla garanzia non è associata una qualche sorta di manleva. Il che significa che le garanzie statali non andranno a sostenere credito verso le attività in maggiore difficoltà.

In generale credo che la migliore risposta venga dal noto intervento dell’ex Governatore Draghi sul Financial Times dello scorso 25 marzo.  Anzitutto tutelare i lavoratori dalla perdita del lavoro, il che non si fa vietando i licenziamenti per decreto, ma fornendo liquidità di emergenza alle imprese e sostegno alla ripresa alla sola condizione che i percettori mantengano i livelli occupazionali e destinino la forza lavoro temporaneamente in eccesso all’innovazione di prodotto e di processo per perseguire finalmente un recupero della produttività, male mai curato del nostro sistema industriale.

Conosco personalmente realtà industriali torinesi in cui ciò sta accadendo, a spese dell’Imprenditore. Una proposta potrebbe essere quella di istituzionalizzare questo processo.

Draghi avverte che occorre stare pronti a far assorbire dai bilanci degli Stati questi interventi, come sempre è accaduto per il sostenimento degli sforzi bellici.

L’alternativa è la distruzione permanente della capacità produttiva del Paese, una contrazione devastante del gettito fiscale, la conseguente impossibilità da parte dello Stato di erogare welfare, ed infine un avvitamento in scenari dai quali occorreranno generazioni per risollevarsi.

Come dare prospettive e formare i giovani al lavoro superata l’emergenza?

La formazione al lavoro non è e non sarà più una questione che riguarda le “coorti anagrafiche” giovanili. Già ante COVID avevamo il problema della riqualificazione di lavoratori privi di competenze digitali, nonché quello di un sistema scolastico da più parti giudicato inadeguato per contenuti e risultati. Occorrerà creare nuovi modelli formativi per introdurre giovani e meno giovani nel mondo delle competenze digitali e stimolare e sviluppare imprenditorialità e creazione di nuove aziende e nuovi posti di lavoro. Non utilizzo volutamente il termine start up perché abusato e fuorviante: non sto pensando a giovani geni da Silicon Valley che realizzano App, ma a giovani e lavoratori in riqualificazione professionale che insieme fanno creazione d’impresa, anche -perché no- manifatturiera. Occorrerà mobilititare nuove forze, trasformando i lavoratori specializzati in formatori part time, realizzando speciali “academies” sul territorio, anche dentro le fabbriche, nelle quali imprenditori, maestranze, disoccupati lavorino insieme alla creazione di competenze che non ci sono o che sono scarse. Mi permetto di andare controcorrente rispetto a tanta parte del sentire comune. Non dobbiamo pensare solo ai talenti ed alle persone eccellenti: questi troveranno comunque la loro strada. In questo momento drammatico dobbiamo farci carico proprio dei più sfortunati, o semplicemente dei mediocri, che hanno comunque il dovere (e sottolineo dovere) di formarsi e lavorare per poter contribuire allo sviluppo, stavo per dire al salvataggio, del Paese. Il rapporto con l’Europa in considerazione delle problematiche che stanno emergendo Banca tedesca, Bce, vincoli e difficoltà estreme di visione comunitaria. Mi chiedo quale comunità di Stati è quella in cui i giudici di un tribunale di uno stato membro possono mettere a rischio la stabilità finanziaria dell’intera Unione. Una comunità nella quale la risposta a questa azione giudiziaria temeraria deve necessariamente passare – è cronaca odierna – per cavilli e battaglie legali in punta di diritto internazionale, mentre la gente muore, oggi di COVID domani di inedia. I ceti produttivi, da sempre favorevoli alle politiche di integrazione comunitaria, cominciano a non capire o non tollerare più certe logiche. Mi ha colpito il fatto che proprio Draghi, nel citato intervento sul FT non abbia mai fatto cenno all’Unione né all’Eurozona, ma solo ai bilanci dei singoli stati. Il vero test che l’UE affronterà in queste settimane è se provare a diventare una vera Unione o rimanere un insieme articolato di Stati in perenne bilico tra alleanze e belligeranze, un tempo militari, oggi economiche e finanziarie. Un detto recita: “se vuoi andare veloce, viaggia da solo; se vuoi andare lontano, viaggia con gli altri.” Il rischio qui è che se non si rendono evidenti i benefici dell’andare lontano, viaggiare da soli diventi una risposta plausibile. La scelta del Regno Unito deve insegnarci molto.

Luca Rolandi

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