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Giorgio Aimetti

Carlo Donat-Cattin
La vita e le idee di un democristiano scomodo

Ed. Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2021
540 pp.
Ean 9788849868777

La firma di Donat-Cattin sul Preambolo

Nella storia politica di Donat-Cattin si incontrano due momenti chiave: il primo quello caratterizzato dalla sua azione durante l’Autunno caldo; il secondo quello che lo vide protagonista della svolta del Preambolo al congresso di Roma del 1980. Due momenti che sembrano quasi contrapposti. Il Preambolo infatti metteva la parola fine all’ipotesi di un’alleanza tra Dc e Partito comunista italiano.

La stagione di Benigno Zaccagnini si concludeva con la celebrazione del Congresso nazionale Dc che si teneva a Roma dal 15 al 20 febbraio 1980.

A caratterizzare quel passaggio, che portava alla guida della Dc una squadra guidata da Piccoli, Forlani e Donat-Cattin era un documento che veniva ideato e scritto dal leader di Forze nuove: passato alla storia del partito come il “preambolo”, era lo strumento che rendeva possibile un’alleanza difficile tra le correnti democristiane e dava voce agli insoddisfatti della solidarietà nazionale che sembrava accondiscendere a una futura intesa di governo con il Pci.[…]

L’operazione che il leader di Forze nuove auspicava era ambivalente: l’altra parte del problema consisteva nel riprendere una collaborazione sistematica colle forze politiche di democrazia laica e socialista, interrotta e resa difficile da quanto era accaduto nel periodo intercorso tra l’approvazione della legge sul divorzio e quella dell’aborto. E questa seconda parte del progetto sarebbe stata più difficile e avrebbe finito per trovare maggiori ostacoli. Quegli impedimenti avrebbero trasformato un’alleanza strategica di lungo respiro in un confronto dialettico dove l’intesa sarebbe stata continuamente messa in discussione.

Il congresso Dc di Roma comunque chiudeva un periodo nel quale le condizioni per un cambiamento di linea politica si erano manifestate da tempo. Prima l’assise socialista di Torino, poi, la festa dell’Unità di Genova, che aveva segnato il ritorno del Pci su posizioni di aspra contrapposizione al Governo, erano stati avvenimenti che interpellavano i dirigenti e gli iscritti democristiani. Tuttavia sembrava ancora difficile individuare la strada che avrebbe consentito al Psi di cambiare strategia abbandonando le ipotesi frontiste che avevano caratterizzato la politica socialista degli ultimi anni.

La maggioranza zaccagniniana, nei giorni che precedevano l’assise romana, aveva rilanciato la strategia dell’attenzione verso il Pci, sulla quale solo i dirigenti di Forze Nuove e pochi altri in modo esplicito si erano dichiarati in disaccordo. […]

Il clima del precongresso non era dominato dalla sensazione di cambiamenti profondi. Gli editoriali dei maggiori quotidiani parlavano dello svolgimento dei fatti con la certezza che la Dc non avrebbe mutato strategia. Nessun politico, nessun editorialista sembrava convinto della possibilità di ribaltare la linea intrapresa dopo il 1976. […]

Il preambolo finiva per essere la soluzione che consentiva alle diverse correnti escluse dall’accordo tra Andreotti e l’Area Zac, di convergere e creare così uno schieramento maggioritario. Erano poche pagine che delineavano i limiti della politica democristiana in modo definito (anzi definitivo), da allora fino allo scioglimento del partito. […]

Leggiamo: «Il Congresso, pur rilevando l’evoluzione fin qui compiuta dal Pci, constata che le contrastanti posizioni tuttora esistenti sui problemi indicati non consentono alla Dc corresponsabilità di gestione con quello stesso partito; e demanda al Consiglio nazionale il compito di promuovere una iniziativa politico-programmatica che, previa aperta verifica tra i partiti costituzionali nelle opportune sedi, tenda a rendere più stabile e sicuro il governo del paese, nello spirito della solidarietà nazionale e nel riconoscimento della pari dignità delle forze politiche che intendono collaborare».

Come si vede, il documento fin dalle prime righe dava una risposta al “come” realizzare le condizioni della nuova alleanza democratica: la uguale dignità tra le forze politiche significava anche la rinuncia alla tradizionale egemonia democristiana e il riconoscimento del diritto di altri partiti a guidare il governo della Repubblica.

Su queste premesse, gli anni Ottanta sarebbero stati dominati dallo scontro politico che avrebbe opposto Bettino Craxi e Ciriaco De Mita destinati a interpretare, l’uno l’ala moderata (o, verrebbe da dire, contrattualista) del Partito socialista italiano, l’altro la tendenza Dc che intendeva fare leva sul Partito comunista, riproponendo magari una sorta di patto costituzionale, per guadagnare spazi di manovra nei confronti del Psi e dei partiti laici. […]

Il preambolo sembrava un’abiura di tutto un passato politico. […] pochi mesi prima del congresso Donat-Cattin aveva ricordato che nella storia del partito, mai, negli alti e bassi delle vicende politiche, la sinistra di Forze nuove e la Base si erano contrapposte negli appuntamenti congressuali. Era quasi la promessa per una prossima intesa e tutti l’avevano interpretata così.

Invece nel Palazzo dello Sport all’Eur, il gruppo di Donat-Cattin aveva rotto con la tradizione. La corrente, investita dalla perplessità del mondo mediatico, giunto all’Eur per assistere a proposte decisive dalla Democrazia cristiana per un’alleanza con il Pci, non solo voltava le spalle all’area Zac, ma diventava decisiva per una “nuova maggioranza” che in realtà, per le cose dette prima, nuova maggioranza non sarebbe stata: le correnti che la componevano non avrebbero retto a lungo alle prove del  futuro. […] Il preambolo dedicava ai temi della politica internazionale i primi paragrafi: «Il XIV Congresso nazionale della Democrazia Cristiana, di fronte ai gravi problemi del Paese, nella congiuntura internazionale appesantita dalla tensione che l’espansionismo sovietico ha accentuato col passaggio alla diretta aggressione e con la minaccia alle fonti energetiche dell’economia mondiale industrializzata, esprime la convinzione che la via d’uscita dalle difficoltà può essere percorsa con successo, purché il Partito sia orientato, nel presente e nell’avvenire, dai principi e dai valori della sua tradizione popolare e democratica, che gli hanno dato forza nel passato per raccogliere un largo e costante consenso nel compito di guida per fondare la Repubblica, sviluppare le libertà, promuovere il progresso civile, sociale ed economico, con straordinaria trasformazione del Paese nel quadro garantito delle istituzioni democratiche […]»; continuava con l’impegno politico assunto verso gli elettori di non andare a una corresponsabilità di gestione con il Pci. Infine concludeva: «Il XIV Congresso chiede a tutti gli organi che, col suo voto, si rinnovano, di operare con assiduo impegno per dare al partito forza organizzativa e di presenza nella società; rivolge agli elettori un appello vivo e fiducioso perché confermino e amplino il consenso al Partito, anche nella grande consultazione regionale ed amministrativa della prossima primavera, con la certezza che la Democrazia Cristiana tiene sicura nelle sue mani e non ammainerà mai la bandiera della libertà per tutti gli italiani». Firmato Donat-Cattin, Piccoli, Fanfani, Prandini.

Molto si sarebbe poi discusso sulla natura di quelle pagine, sulla loro opportunità, sul fatto che avessero accelerato o ritardato il declino dello scudocrociato, destinate come erano state a mettere un punto fermo alla politica e alla storia del Paese.

Io ricordo l’impressione che aveva investito gli iscritti democristiani. Da almeno cinque anni erano portati a subire passivamente le offensive politiche che venivano da destra e da sinistra o a lasciarsi trascinare nella logica del compromesso. Alcuni erano avvolti, volenti o meno, dall’atmosfera creata dalla cultura dell’intesa, altri erano portati a chiedersi quali ulteriori aspetti della loro tradizione avrebbero dovuto sacrificare a quello che comunque (“intesa” o “confronto” che fossero) intendevano come l’Avversario. Due paginette dal tono arcaico, nelle quali si parlava dell’espansionismo sovietico e della bandiera della libertà, creavano un soprassalto.

I più smaliziati tra i commentatori giudicavano quelle righe una riscoperta di polemiche che risalivano a più di trent’anni prima, un ritorno al passato persino nel tono del messaggio. Pochi comprendevano che rispondevano all’analisi dei tempi che stavano comunque cambiando. Ancor meno erano quelli che si sforzavano di capire il peso che quegli argomenti continuavano ad avere tra gli elettori italiani. Silvio Berlusconi lo avrebbe compreso più di tutti e quasi quindici anni dopo ci avrebbe legato le sue fortune. […]

Le pagine erano vergate, a due passi dal Senato, nella hall del vecchio Hotel Bologna che ora è diventato sede di uffici e commissioni parlamentari.

Achille Occhetto sarebbe stato segretario nazionale del Pci in un momento assai difficile per i partiti tradizionali e per il suo in particolare: gli anni del crollo del muro di Berlino e del comunismo sovietico. Di Donat-Cattin diceva: «Non era un uomo neutro, diciamo, era il politico cattolico totalmente diverso dall’immagine usuale del doroteo […]. In questo senso Donat-Cattin mi si presenta alla memoria come un uomo di punta di cui naturalmente mi ero interessato fin da giovane. Seguivo i congressi delle Acli, la componente sociale, sindacale. Mi interessava il fatto che lui si presentasse da combattivo difensore dei lavoratori e espressione viva del sindacalismo attivo, ma anche di una visione sociale avanzata».

Poi era venuto il congresso del 1980. «In quel momento evidentemente il preambolo era diventato simbolo di tutto quello che noi combattevamo. Perché era la base di un’alleanza tra la Dc e soprattutto certe componenti della Dc e il craxismo che aveva creato l’avversione prima di Berlinguer, ma poi devo dire anche mia e degli altri dirigenti del partito. In quel momento quell’afflato che ci aveva guidato nel cogliere tutti gli elementi di grande interesse che c’erano nel pensiero e nell’azione e nella passione politica di Donat-Cattin si trasformarono in avversione. Una forma di passione anche questa». L’ultimo segretario comunista concludeva: «Devo dire che nello scrivere il preambolo l’elemento di radicalità che era proprio del pensiero e della mente di Donat-Cattin si vede in modo chiaro. Perché la sua era una posizione estremamente dura e netta dalla quale venivano fuori elementi di rottura e di ricomposizione su altre basi della vita del Paese».

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