La peste
del Manzoni
tra presente
e passato

Luigi Pellegrini Scaramuccia detto il Perugino, Federico Borromeo visita il Lazzaretto durante la peste del 1630, Biblioteca Ambrosiana, Milano

Proposte di audio-lettura al tempo del coronavirus
di Mariapia Donat-Cattin

Chiesa di San Carlo al Lazzaretto, XV secolo. Fotografia di Alex Mastro, Getty Images

La peste del Manzoni tra presente e passato

Le risposte al morbo che si è diffuso fra noi nei mesi passati, e che ancora non è debellato, hanno seguito un copione già visto. Abbiamo riconosciuto nei comportamenti collettivi e individuali persistenze dure a morire – come direbbero gli storici della “lunga durata” – che si sono scontrate con l’evidenza dei fatti,  frutto come sempre dell’irrazionalità e della paura. Così il racconto manzoniano, attento e minuzioso, della diffusione della peste è corso di bocca in bocca. Giornalisti, studiosi, insegnanti hanno messo in luce le tante analogie fra il presente e quanto Alessandro Manzoni ricostruisce e racconta nel romanzo. Fra tutti mi piace richiamare la lettera, pubblicata dal Corriere della Sera, che il preside del Liceo Volta di Milano ha indirizzato ai suoi studenti nel periodo in cui le scuole sono state forzatamente chiuse. Si apre proprio con la citazione dell’incipit del capitolo XXXI dei Promessi Sposi.

Il duomo di Milano

“La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò in una buona parte d’Italia” e prosegue con l’invito a leggere con un’attenzione nuova e diversa il testo manzoniano “in questi giorni così confusi” perché è “un testo illuminante e di straordinaria modernità” e perché “dentro quelle pagine c’è già tutto, la certezza della pericolosità degli stranieri, lo scontro violento tra le autorità, la ricerca spasmodica del cosiddetto paziente zero, il disprezzo per gli esperti, la caccia agli untori, le voci incontrollate, i rimedi più assurdi, la razzia dei beni di prima necessità, l’emergenza sanitaria”.

Francesco Gonin, La colonna infame

Seguiamo anche noi il suo suggerimento e scopriamo che la prima risposta, anche se non sempre e non ovunque, oggi come allora, è stata la negazione o la minimizzazione del contagio. Per passare poi, quando la sua evidenza si è imposta, alla ricerca del paziente uno che nel lessico del passato, vuol dire la ricerca del colpevole. Intanto il contagio aveva avuto il tempo di diffondersi a macchia d’olio. Perché le voci fuori dal coro, la denuncia di pochi scienziati e medici illuminati, almeno in un primo tempo, allora come oggi erano rimaste inascoltate quando non fatte oggetto di scherno e talvolta persino di persecuzione.

L’autoinganno collettivo – conseguenza del “contagio dell’irrazionalità” pericoloso e dannoso quanto il contagio fisico, se non di più – contribuiva così a coprire sotto la sua coltre opaca: responsabilità, ritardi, provvedimenti contradditori, errori e omissioni delle istituzioni e della politica, della medicina come della scienza. E questo avveniva anche attraverso quella che Alessandro Manzoni aveva chiamato trufferia di parole.

Sul finire del mese di marzo […] in ogni quartiere della città cominciarono a farsi frequenti le malattie, le morti per lo più celeri, violente, non di rado  repentine […]. I medici opposti alla opinion del contagio, non volendo ancora confessare ciò che avevano deriso, e dovendo pur dare un nome generico alla nuova malattia, divenuta troppo comune e troppo palese per andarne senza, trovarono quello di febbri maligne, di febbri pestilenziali: miserabile transazione, anzi trufferia di parole, e che pur faceva gran danno; perché figurando di riconoscere la verità, riusciva ancora a non lasciar credere ciò che più importava di credere, di vedere, che il male s’attaccava per mezzo del contatto.

Alessandro Manzoni, indagatore acuto e straordinario dell’animo umano, studioso attento e scrupoloso della realtà storica e narratore finissimo, nell’affrontare la peste che fra l’autunno del 1629 e la fine dell’estate del 1630 infuria in tutto il Milanese (colpendo anche buona parte dell’Italia) tocca tutti questi aspetti e altri ancora non meno significativi e importanti.

Come tutti sappiamo nei Promessi sposi due capitoli, il XXXI e il XXXII, sono interamente dedicati alla peste. Molti critici nel passato hanno lamentato la lunghezza di tale digressione che, invece, è parte integrante tanto della Storia milanese del XVII secolo scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni quanto del dramma dei protagonisti. Tant’è che la peste continua a occupare uno spazio significativo anche nei capitoli successivi del romanzo sino alla sua conclusione.

Numerosi sono i personaggi che si ammalano di questo morbo e ne muoiono. Perché questo immane flagello spazza via tutti: potenti e umili, dotti e ignoranti, santi e malandrini, vecchi, giovani e bambini. Di peste muoiono tragicamente don Rodrigo, squallidamente il Griso, santamente Padre Cristoforo, incredulo e attonito don Ferrante (convinto com’è delle sue errate teorie sulle influenze astrali) e altri ancora. Qualcuno ne guarisce. È il caso di Renzo che, presa la peste, si cura da sé, cioè non fa nulla, ne [era stato] in fin di morte, ma la sua buona complessione [aveva vinto] la forza del male: In pochi giorni, si [era trovato] fuor di pericolo e una volta rimessosi in forze aveva deciso di andare a Milano in cerca di Lucia.

La città devastata dalla pestilenza, con il suo silenzio rotto solo dallo scampanellio che precede e accompagna il transito dei carri carichi di morti, appare agli occhi di Renzo diversa e lontana dalla città della fame, della folla e dei tumulti nella quale era entrato per la prima volta dopo la separazione dolorosa da Lucia l’11 novembre del 1628: Quale città! e cos’era mai al paragone, quello che era stata l’anno avanti, per cagione della fame!

I luoghi e i nomi di quella parte di Milano ricordano quel passato anche se le sopravvivenze fisiche sono davvero poche. Del grande lazzaretto risalente alla fine del Quattrocento resta solo una piccola porzione sulla via San Gregorio, vicino alla piccola chiesa di San Carlo al Lazzaretto che si trovava al centro dell’ospedale, affettuosamente chiamata dai milanesi San Carlino. Restano i nomi delle strade che ricordano i protagonisti di quella tristissima vicenda: Lodovico Settala il protofisico che riconobbe e denunciò subito il contagio e operò per contrastarlo nonostante l’età avanzata; Alessandro Tadino, stretto collaboratore di Settala e Felice Casati il padre cappuccino cui, il 30 marzo del 1630, fu affidato dal tribunale di sanità e dai decurioni il compito di gestire il lazzaretto nel momento più violento e drammatico del contagio. Vale la pena riportare il commento che Manzoni riserva alla scelta di affidare ai frati cappuccini un compito che era proprio della Sanità pubblica e dei pubblici poteri.

Era uno strano ripiego; strano come la calamità, come i tempi, e quando non ne sapessimo altro, basterebbe per argomento, anzi per saggio di una società molto rozza e mal regolata, il veder quelli a cui toccava un così importante governo, non sapessero più farne altro che cederlo, né trovassero a chi cederlo, che uomini, per istituto più alieni da ciò. E, prosegue più avanti, l’opera e il cuore di que’ frati meritano che se ne faccia memoria, con ammirazione, con tenerezza, con quella specie di gratitudine che è dovuta, come in solido, per i gran servizi resi da uomini a uomini, e più dovuta a quelli che non se lo propongono per ricompensa.

Francesco Gonin, I frati cappuccini del Lazzaretto

Per essere aderenti alla realtà dei fatti è bene sottolineare che fra il presente e il passato esistono anche molte e significative differenze. I medici e gli ufficiali sanitari non avevano ancora le conoscenze scientifiche che oggi consentono di individuare l’agente causale delle malattie infettive e i metodi di cura adottati erano del tutto inefficaci. E ancora dobbiamo riconoscere che le risposte dei governi, delle istituzioni, della stragrande maggioranza della popolazione sono state, nella più parte dei casi, responsabili e le indicazioni dettate dagli scienziati non sono state inascoltate anche se spesso sono prevalsi orientamenti e linee di condotta che non sempre si sono rivelati i migliori possibili. Insomma passi in avanti se ne sono fatti. Stupisce tuttavia che, a distanza di tanto tempo, siano riscontrabili ancora significative analogie.

Passiamo dunque al racconto e alla lettura del testo manzoniano che costituisce la terza tappa del percorso iniziato con la Peste di Londra di Defoe, proseguito poi con la peste di Atene descritta da Tucidide.

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Francesco Gonin, La peste di Milano del 1630

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