Il Dante di Levi

Fra il Dante pop dei dantisti improvvisati e il Dante delle celebrazioni ufficiali noi abbiamo scelto il Dante di Primo Levi, quello dell’undicesimo capitolo di Se questo è un uomo la cui voce emerge come “uno squillo di tromba” nell’aberrante desolazione di Monowitz (Auschwitz-Slesia). Nel proporre all’amico Jean i versi del Canto di Ulisse, Primo Levi ricorre alla memoria dei suoi studi liceali. I versi spesso monchi non incidono sul valore del messaggio che contengono, anzi quasi ne moltiplicano la forza e il significato. Il giovane Levi non aveva e non poteva avere con sé quel libro che, invece, aveva il mio nonno paterno durante la sua prigionia. Conservo come un bene preziosissimo quella copia della Divina Commedia, in una edizione tascabile della SEI, che porta sul frontespizio il timbro del campo dove era stato internato, dopo l’8 settembre del 1943, Attilio Donat-Cattin, all’epoca ufficiale dell’esercito italiano.

      

Sono convinta che entrambi in quel libro, in quel grande libro cercassero e scoprissero la stessa cosa: che il destino dell’uomo è quello di “seguir virtude e conoscenza” perché gli uomini non son fatti “per viver come bruti”. In questa scelta difficile e in certi contesti quasi impossibile sta il senso profondo dell’essere e del rimanere umani. Questo vale al tempo di Dante, negli anni turbolenti in cui egli visse, come al tempo tragico di Levi, e ancora nei nostri giorni. E allora torniamo a leggerlo, Dante, e torniamo a leggere Levi.

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