La peste
di Atene

Note sull’epidemia descritta da Tucidide

di Cristiana Rosella Alegiani

Asclepio guarisce una donna malata apparendogli in sogno a capo del letto, dietro a lui Igea. Tavoletta votiva, Museo Archeologico del Pireo.

L’epidemia nell’Atene di Pericle

Il quadro clinico descritto da Tucidide non è quello della peste bubbonica, dovuta ai topi e alle pulci che sono a loro volta vettrici e ospiti del bacillo, Yersinia pestis, scoperto da Alexandre Yersin nel 1894, ma più verosimilmente quello del tifo petecchiale dovuto ai pidocchi vettori del microrganismo, Rickettsia Prowazeki, scoperto da Howard Taylor Ricketts e Stanislaus Prowazek alla fine dell’Ottocento.

La Rickettsia provoca lesioni vascolari che si manifestano con una microvasculite: lesioni della cute e degli organi interni.

Tutti i sintomi descritti con mirabile precisione e perizia scientifica da Tucidide sembrano avvalorare questa ipotesi: il periodo di incubazione di sette giorni, l’esordio della fase acuta con la comparsa di febbre, brividi e cefalea e di un esantema diffuso. L’aggravarsi del quadro generale con sintomi di un forte bruciore cutaneo, di una sete incoercibile dovuta ai danni viscerali e l’insorgere di uno stato di agitazione che a volte sconfina in uno stato confusionale. Nella descrizione degli effetti della malattia egli osserva che alcuni presentano delle cancrene delle estremità anch’esse dovute alle lesioni vascolari indotte dallo stato infettivo.

Asklepion di Epidauro, Grecia, plastico in scala 1/66 (1936), 1/66, (© The Board of Trustees of the Science Museum, Londra)

Tucidide descrive in modo rigoroso la devastazione fisica e psichica che si produce nella popolazione colpita dal morbo, assiepata entro le mura urbane. L’affollamento che si era determinato (Storie II, 15-17), le scarse condizioni igieniche dovute agli alloggi improvvisati intorno e sotto l’acropoli favorirono l’esplosione del contagio:

Aumentava la loro [degli Ateniesi] difficoltà, oltre alla malattia, anche l’afflusso della gente dai campi alla città, e soprattutto erano in difficoltà i nuovi arrivati. Non esistendo case per loro, ma abitando d’estate in baracche soffocanti, la strage avveniva nel massimo disordine, morendo l’uno sull’altro, giacevano a terra cadaveri.

L’osservazione dei dati è oggettiva non influenzata da valutazioni personali né in alcun modo la causa degli eventi viene attribuita agli oracoli avversi ma semmai a fattori imponderabili e comunque di carattere naturale e ambientale.

La sua modernità sarà ripresa durante l’Umanesimo che fonderà la ricerca medica sull’esperienza e l’osservazione diretta dei fenomeni morbosi per individuarne le cause.

Ippocrate e i templi della salute

Facciata del tempio di Asclepio a Epidauro, (Wellcome Collection – CC BY 4.0)

Secondo Ippocrate, nato nell’isola di Cos nel 460 a.C, nello stesso anno in cui nasceva ad Atene Tucidide, l’arte della cura è un esercizio di pratiche affini e omogenee il cui fine è la guarigione e la salute, coerenti con un principio e una via l’una e l’altra ispirati a una naturalità e razionalità che separano dal soprannaturale e dal mito. Esse implicano una teoria della natura, una teoria della conoscenza e della pratica e anche una filosofia. Il compito del medico è quello di osservare i sintomi del malato, la seméiosi; conoscere la storia del malato, l’anamnesi; comprendere lo stato presente,  la diagnosi; prevedere il futuro decorso della malattia, la prognosi; indicare i rimedi, la terapia. Nella medicina Ippocrate integra il suo empirismo innovativo con principi ipotetici dedotti da una concezione filosofica che stabilisce una corrispondenza tra universo naturale e microcosmo umano.

Sorano di Efeso nella sua Genealogia e vita di Ippocrate, di incerta datazione (I secolo a.C. – II secolo d.C.) mitizza la figura di Ippocrate, discendente di Asclepio di diciannovesima generazione.

Ricostruzione del tempio di Asclepio

Il culto di Asclepio (l’Esculapio dei Romani), le cui origini probabilmente precedono la distruzione di Troia, raggiunge la sua piena espressione nel IV secolo a.C. Anche ad Atene esisteva un tempio intitolato a questa divinità il cui culto proveniva da Epidauro. Esso aveva anche funzione di accoglienza e di cura dei malati.

Nel corso dei secoli la pratica della cura si era evoluta.

Dalle storie e dai sintomi scritti dai malati sulle tavolette votive si era passati a una più varia casistica che consentiva di delineare più tipologie di morbi. Dai trattamenti prescritti dagli asclepiadei si veniva a consolidare un’esperienza che si traduceva in quei protocolli curativi che avevano manifestato nella pratica maggiore efficacia.

Hippocrates

Ai preliminari dell’abluzione e del digiuno, adottati in precedenza, si aggiungeva un’attenzione alla prevenzione con l’osservanza di norme igienico-dietetiche. Le prescrizioni si trasformavano in ricette che attingevano a un vasto formulario. La cura non derivava più da una sapienza divina o magica ma diventava un’arte degli uomini. I sacerdoti continuavano ad avere il compito di interpretare i sogni mediante i quali il dio indicava il regime terapeutico ma, in qualità di medici, di praticare essi stessi le cure agli ammalati.

Ippocrate era molto polemico nei confronti delle pratiche magiche che non sapevano dar conto delle ragioni dei propri interventi e invocavano a sproposito l’origine divina delle malattie. Al contrario, per lui la comprensione e la cura dei processi organici richiedeva competenze complesse e un’ esperienza diretta e specifica. In questo sta la sua sorprendente modernità.

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