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A 50 anni
dallo Statuto

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piano di lavoro

Le interviste

di Alessandro Parola

Statuto dei lavoratori: una svolta per i diritti
Materiali per un convegno

Il ministro Carlo Donat-Cattin, incontro con i sindacati confederali, 1969

20 maggio 1970: lo Statuto dei Lavoratori diventa legge

Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale il 20 maggio 1970, esattamente 50 anni fa, lo Statuto dei Lavoratori diventava legge dello Stato. Una legge che ha inciso profondamente sulle relazioni sindacali ed industriali, e a cui stiamo dedicando sul sito un lavoro finalizzato a ricostruire il contesto storico, politico ed economico in cui è stata approvata, e ad aprire una discussione su cosa la sua attuazione suggerisce per l’oggi. Ai contenuti dello Statuto ed alla sua approvazione parlamentare ha dato un contributo determinante il Ministro del Lavoro Carlo Donat-Cattin, che ha preso il testimone dal socialista Brodolini, prematuramente scomparso. Al ruolo di Donat-Cattin è dedicato l’articolo di Giorgio Aimetti che pubblichiamo.

Giorgio Aimetti

Lo Statuto di Carlo Donat-Cattin

Cinquant’anni fa, Carlo Donat-Cattin riusciva a far approvare la legge 300, lo Statuto dei Lavoratori in una temperie che vedeva un fragile governo monocolore Dc sballottato in un clima politico e sociale surriscaldato dalla stagione dei contratti (ma anche dalle divisioni interne al socialismo italiano).
La ferma convinzione del ministro del Lavoro sull’opportunità del provvedimento era segnata dalla risposta che aveva dato al suo principale collaboratore del momento,  Gino Giugni che aveva avanzato più di una riserva dal punto di vista della giurisprudenza circa le modifiche che il Parlamento aveva introdotto alla legge voluta da Giacomo Brodolini.
«In questo momento si può fare tutto» aveva detto Donat-Cattin.
La frase, riportata da Emanuele Stolfi nel suo volume Da una parte sola, era in particolare la replica ai dubbi manifestati sull’introduzione dell’ormai ben noto articolo 18, ma era anche il segno di quanto la legge 300 fosse figlia dei tempi e delle lotte operaie che stavano animando il paese proprio mentre il Parlamento si dedicava alla nuova normativa che cambiava i rapporti di forza nel conflitto sociale.
Sul provvedimento approvato mezzo secolo fa si discute ancora in questi giorni. Ne ha parlato Avvenire con l’intervento di Pietro Ichino e di Tiziano Treu; qualche giorno fa ne ha parlato Paolo Guzzanti sul Riformista. C’è un clima di revisionismo diffuso, sia pure meno accanito di quello cresciuto durante la stagione di Renzi.
A cinquant’anni di distanza vale la pena di ricordare quei passaggi.
Donat-Cattin aveva preso a staffetta il progetto dello Statuto che era venuto in discussione per opera di Giacomo Brodolini dopo un paio di decenni di dibattiti, distinguo e divisioni che avevano attraversato non solo i partiti ma anche il mondo del lavoro. E da Brodolini, scomparso poco prima, Donat-Cattin aveva voluto prendere non solo il progetto di legge, ma anche la squadra di esperti dei quali il suo predecessore si era circondato. In primis Gino Giugni, socialista, che era stato l’estensore del provvedimento.

Carlo Donat-Cattin e Toros al ministero 1970

Una legge di sostegno dei sindacati e di tutela dei diritti dei lavoratori era stata auspicata già nel primo dopoguerra. Il titolo che avrebbe avuto di “Statuto dei lavoratori” era il frutto di una eredità monarchica. A battezzarlo così era stato, il 26 giugno 1920, Filippo Turati. Il suo cammino legislativo, interrotto dal fascismo e faticosamente ripreso con l’avvento della Repubblica, aveva incontrato opposizioni nella società, tra i partiti, ma anche nel mondo sindacale.
I cattolici impegnati nel mondo del lavoro avevano al loro interno posizioni differenti. Contrari erano gli esponenti della Cisl più ortodossa (a cominciare da Pastore, Storti e dal loro ispiratore Mario Romani), favorevoli, una minoranza della Cisl (in testa Donat-Cattin) e le Acli.
La discussione era quella dell’opportunità di inserire nella legislazione del paese norme che ad avviso di quanti erano contrari avrebbero dovuto essere invece frutto della dialettica sindacale.
Tanti dubbi manifestava anche buona parte del movimento extraparlamentare che era protagonista tra gli anni sessanta e settanta di lotte diventate più aspre durante l’autunno caldo.
La legge era stata un progetto a più mani. Anticipato dall’intuizione del leader socialista Turati aveva avuto un sostegno da parte cattolica, era stato rilanciato dal comunista Di Vittorio. Sarebbe stato votato, al Senato, persino dai liberali.
Donat-Cattin, sempre favorevole a una legge sindacale che sancisse, più che i limiti, i diritti del sindacato, era riuscito a condurre in porto un provvedimento che dalle lotte sociali del ’69 traeva ulteriore forza. Ma c’era voluta la sua determinazione perché fosse approvato al Senato a metà dicembre 1969, nei giorni dell’accordo contrattuale con i metalmeccanici e dell’esplosione della bomba di piazza Fontana.
La frase riferita da Stolfi era, più che una provocazione, una constatazione: di fronte alla sfida terroristica e alla sconfitta confindustriale nella vertenza dell’autunno caldo davvero si potevano conseguire risultati irripetibili, tanto più che il mondo politico intero appariva ancora commosso dalla tragica scomparsa dell’onorevole Brodolini che, ricordava il suo successore, «lavorava con il tempo scandito dall’orologio della morte». Ma c’era la difficoltà di superare l’attrito parlamentare,  la tendenza al rinvio, le sabbie mobili dei dubbi, l’inevitabile allungarsi dei tempi tecnici.
Di Donat-Cattin era nota non solo la dura determinazione, ma anche la capacità di sfruttare gli espedienti parlamentari, di conoscere i meccanismi legislativi, di mettere a frutto il suo  immenso prestigio guadagnato in quei giorni difficili presso il suo stesso partito che altrimenti avrebbe potuto insabbiare un iter che invece si voleva concludere velocemente.
Al Senato il ministro diceva: «Senza dubbio lo Statuto non è altro che una legge democratica, l’affermazione del pieno diritto dei lavoratori ad essere cittadini italiani in ogni parte del territorio nazionale ed in ogni loro funzione. È una legge che dà il valore, spesso non riconosciuto, del passaggio notevole che è intervenuto, nel pur faticoso arco quasi quindicennale della politica di centro sinistra nel nostro Paese».  Poi aggiungeva: «A posteriori, credo che questo periodo non abbia eguali nella recente storia italiana come dislocazione del potere sovrano», e concludeva: «Lo Statuto è una legge importante perché fissa alcuni principi che contano anche, anzi soprattutto, nelle fasi di riflusso».
Poi nei mesi successivi la caduta del governo Rumor rendeva ancor più complicato il cammino della legge. E ancora una volta era la determinazione del ministro a consentire di completare il suo iter parlamentare.
Lo Statuto, avrebbe detto ai deputati, rappresentava «un’affermazione dura e precisa dei diritti dei lavoratori che come cittadini partecipano alla Costituzione di una Repubblica fondata sul lavoro e vogliono che sia riconosciuta la possibilità di organizzazione e di manifestazione dei propri interessi, che essi sanno, autonomamente, inquadrare nel contesto degli interessi nazionali e che, attraverso questo strumento legislativo, vengono sostenuti senza briglia per l’affermazione di queste esigenze e di questi ideali».

Giorgio Aimetti

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