Ai problemi della gente dedicò le energie migliori

Nel sindacato trovò referenti privilegiati nelle spiccate personalità, sia pure diverse tra loro, di Rapelli e Pastore, anche se in seguito le sue scelte si differenziarono da quelle dei maestri. Tra il 1948 e il 1956 assunse vari incarichi nella struttura sindacale torinese, come segretario della LCGIL prima e della CISL poi. Il suo impegno si sviluppò soprattutto in duplice direzione. Per un verso condivise con Rapelli la costruzione di un sindacalismo cattolico strettamente collegato all’insegnamento sociale della Chiesa e in diretto rapporto con l’area politica di provenienza (differenziandosi in questo dalla linea espressa da Pastore); per altro verso si adoperò nella difesa del sindacato di fronte ai potentati economici, denunciando in particolare i cedimenti filopadronali della CISL alla FIAT fino a consumare nella seconda metà degli anni ’50 il proprio distacco da Rapelli e dal suo progetto di sindacalismo autonomo.
Accanto al lavoro sindacale, unito anche ad un’attiva presenza nelle ACLI, Donat-Cattin Intensificò la militanza politica che ne avrebbe sempre più caratterizzato l’esperienza. Il suo coinvolgimento diretto nella DC, già avviato nel periodo resistenziale, conobbe un’accelerazione nell’immediato dopoguerra. Esponente del movimento giovanile del partito, fece parte del comitato regionale e di quello provinciale di Torino.
Più volte consigliere comunale e provinciale, nel 1954 fu eletto nel Consiglio nazionale della DC e nel 1959 nella direzione del partito.

Deputato dal 1958 e senatore dal 1979, fu vicesegretario della DC tra il 1978 e il 1980. Nel partito rappresentò la sinistra sociale, legata alla storia sociale e sindacale del movimento dei cattolici in
Italia e rilanciata soprattutto da Pastore nei primi anni ’50 con il gruppo “Cronache sociali”, poi diventato “Forze sociali”, quindi “Rinnovamento” e infine, dal 1964, “Forze nuove”, di cui Donat-Cattin fu incontrastato leader.
Considerò la DC come essenziale strumento di riscatto politico per vasti ceti popolari e occasione di affermazione per classi dirigenti nuove. A più riprese rivendicò, sulla scia di Sturzo, la caratteristica della DC come partito di “liberi e uguali”, nel quale “il criterio della cooptazione dall’alto non prevalesse su quello della selezione democratica dal basso” (S. Fontana). Con le sue nette prese di posizione, accompagnate da caparbietà e franchezza anche aspra nel confronto, non mancò di evidenziare contrasti e dissensi con le varie componenti democristiane, riuscendo tuttavia in varie circostanze, pur guidando un gruppo minoritario, a influenzare la linea del partito e la scelta dei gruppi dirigenti.

All’interno della DC dialogò soprattutto – sia pure a fasi alterne – con l’altra componente della sinistra democristiana, la “Base”, rispetto alla quale tuttavia la corrente di Donat-Cattin rivendicò in più occasioni le diversità di formazione politica e di legami sociali.

Un vero rapporto privilegiato stabilì invece con Aldo Moro, nel quale riconosceva non comuni capacità di coesione e di sintesi politica. Il legame si consolidò soprattutto nell’esperienza del centro-sinistra (una fase politica da Donat-Cattin decisamente preparata e sostenuta) e si intensificò ulteriormente dopo il 1968, quando quella stagione dava segni di esaurimento e i consensi attorno allo statista pugliese si andavano affievolendo. Attenzione e stima peraltro ricambiate, specie nella capacità di cogliere nelle posizioni spesso dirompenti di Donat-Cattin “ciò che significava, in termini di coerenza, l’intransigenza della sinistra sociale di cui Donat-Cattin si faceva interprete” (F. Foschi). “Il rapporto con Moro contribuì anche al nostro permanere nella DC”, affermerà Donat-Cattin in riferimento alla fase successiva alle elezioni del ’68, quando la posizione di “Forze nuove” giunse ai limiti della rottura con il partito di fronte ad una politica delle riforme nettamente mortificata ed al prevalere nella DC di forti condizionamenti in senso moderato. Il dialogo proseguì, particolarmente serrato e dialettico, quando, qualche anno dopo, Moro si impegnò sul fronte della solidarietà nazionale e sulla più generale questione del rapporto con i comunisti, terreno sul quale Donat-Cattin mostrò non poche reticenze, nel timore soprattutto che un’alleanza organica con il PCI portasse alla perdita della rappresentatività popolare della DC. Con l’assassinio di Moro, l’unico – secondo Donat-Cattin – ritenuto in grado di gestire un esperimento di tale portata garantendo l’unità del partito, perplessità e riserve si acuirono concretizzandosi in occasione del XIV Congresso nazionale della DC (1980) nel “Preambolo” che escludeva una ulteriore collaborazione di governo tra DC e PCI.

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