Ciriaco De Mita (1928-2022)

Alcune fotografie di Carlo Donat-Cattin con Ciriaco De Mita

Scompare con Ciriaco De Mita una delle più significative figure del cattolicesimo politico della seconda metà del Novecento.
È stato il più importante leader della “sinistra politica” della Democrazia Cristiana, sovente in dialettica con quella sociale di Carlo Donat-Cattin.
Ha interpretato in modo coerente un’idea di riformismo centrato sulla dialettica tra le forze politiche, e tra i primi ha intuito l’importanza che assumeva per la trasformazione della società italiana un organico disegno di riforma istituzionale.
Se questa impostazione lo portava talvolta a mettere in secondo piano la concretezza delle questioni sociali, superava questa contraddizione con una raffinata capacità di analisi dei problemi della società italiana e dei limiti del suo sviluppo.
È stato, fino alla fine, un convinto sostenitore del ruolo politico dei cattolici, e noi lo ricordiamo anche per l’ultimo importante tentativo di rinnovamento della Democrazia Cristiana, quello della “stagione degli esterni” degli anni ’80.
Di Ciriaco De Mita riparleremo presto nel lavoro che stiamo conducendo sul cattolicesimo politico del secondo dopoguerra.

Il convegno di Saint-Vincent del 1989 è stato dedicato da Forze Nuove alla ricerca di una nuova convergenza delle sinistre democristiane, per affrontare insieme la crisi del partito. I principali interventi sono stati pubblicati sulla rivista Terzafase, numero X, Anno VII, ottobre 1989. Riproponiamo quello di Ciriaco De Mita.

“Da tempo il nostro ordinamento istituzionale è entrato in difficoltà. Il problema centrale è quello della stabilità del governo. Il processo di crescente divaricazione tra i partiti che concorrono a formare le coalizioni non è legato al temperamento delle persone, ma alle diverse strategie politiche. La Dc deve saper dare risposte chiare, recuperando la lezione sturziana. Un partito è popolare se sa rispondere ai bisogni della gente. E le istituzioni devono essere garanzia della possibilità di cambiamento”.

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La sfida al declino parte dalla riforma istituzionale

di Ciriaco De Mita

Cari amici, quando con Donat-Cattin, in uno dei suoi rarissimi momenti di cor­diale umanità (lo dico scherzando), concor­dai che sarei venuto al vostro Convegno di Saint Vincent, per la verità immaginavo di arrivare all’inizio e fermarmi per ascoltare. Questo mi avrebbe consentito di dire anche la mia opinione come concorso alla discus­sione.
Poi, per errori della memoria, ho scoperto che domani e dopodomani avevo degli im­pegni, qualcuno di ordine politico, altri di ordine familiare e, quindi, ho deciso di ve­nire oggi. E di venire soprattutto ad ascol­tare, perché ritengo che la novità, nel rap­porto tra me e Forze Nuove, sia questa de­cisione di dialogare, che è, credo, un fatto politico di non secondaria importanza. Il di­scorso era il fatto di venire, ritenendo che in politica si raggiunge un livello di impegno più alto quando la discussione è viva. Poiché io non ho mai pensato che in politi­ca ci siano i portatori di verità, è il confron­to delle opinioni che concorre a ricercare la migliore soluzione possibile. E acquista ruo­lo chi con la propria opinione riesce ad in­dicare la soluzione possibile. Poi condivido anche il titolo del vostro con­vegno, la sinistra possibile, anche se ho qual­che difficoltà, questo lo dico da un po’ di anni, ad individuare uno spazio nel momen­to in ali bisogna cambiare. Noi siamo in pre­senza della crisi del sistema politico e imma­ginare di ritagliarsi, o di occupare uno spa­zio in un sistema in crisi mi sembra infatti una cosa in contraddizione. Però il cambiamento avviene con i piedi nella realtà. E credo — questo per ragioni oggettive — che quelli che nella storia della De­mocrazia Cristiana si sono collocati nello spazio tradizionalmente occupato dalla sini­stra, (anche se non è che gli altri non lo ab­biano fatto) complessivamente hanno sem­pre tentato uno sforzo in più di ricerca della motivazione del loro impegno. Starei per dire che è questo ricordo che ci unisce. Ma il ricordo non basta, e quindi bi­sogna fare in modo che il ricordo diventi il presupposto per una nuova capacità di rifles­sione della quale abbiamo bisogno tutti. Detto questo, potrei fermarmi una seconda volta. Ma qui, oggi, ho ascoltato, in uno de­gli interventi, una interpretazione del mio pensièro sulle istituzioni che per la verità non coincide con quello che io penso. Non è col­pa di chi l’interpreta, ma è colpa mia che dò o per scontate alcune cose o perdio, in ma­niera distratta, lascio sedimentare impressio­ni e giudizi che evidentemente poi diventa­no la mia opinione e non la opinione di chi mi giudica.
Da tempo, e credo adesso a maggior ragio­ne, sono convinto che il tipo di ordinamen­to istituzionale del nostro Paese sia entrato in difficoltà. Le ragioni della difficoltà so­no due: una è storica, perché alcuni aspetti dell’ordinamento istituzionale, già quando venne elaborata la Costituzione, affrontaro­no, ma non risolsero il problema della sta­bilità del governo.
E quando parlo di stabilità del governo non mi riferisco solo al governo centrale, parlo dei vari livelli di governo. L’ho detto in qual­che altra circostanza e lo ripeto qui: questa deficienza, o questa carenza nell’ordinamen­to fu risolta politicamente con la maggioran­za assoluta della Democrazia Cristiana. Per questo noi non abbiamo avvertito subi­to questa difficoltà. E successivamente, que­sta carenza venne supplita dalle politiche di coalizione, che sono la grande novità della storia democratica italiana del dopoguerra (quella degasperiana), attraverso la solida­rietà tra forza affini per affrontare e risol­vere i problemi di un Paese in trasformazio­ne, conservando le condizioni della demo­crazia.
Forse come Democrazia Cristiana dovremmo dar luogo ad una riflessione serena, non solo per eruditi, per storici, ma anche per i semplici cittadini sulla esperienza politica del nostro Paese.
Perché credo che in molti di noi sia stata me­morizzata più di una falsificazione sulla sto­ria civile e politica del nostro Paese, presen­tata spesso come uno scontro tra conserva­zione e progresso, con la singolarità che og­gi proprio le forze presentale come quelle del progresso sono in crisi rispetto alle forze co­siddette di conservazione. Questo forse ci aiuterebbe a rispondere meglio a polemiche strumentali che caratterizzano il dibattito tra le forze politiche, anche in questi giorni. Adesso la risposta politica che si era deter­minata nel tempo alla carenza istituzionale di un governo stabile è saltata. Questo è av­venuto per un insieme di ragioni che sareb­be lungo enumerare, ma anche per un con­corso di circostanze diverse, che hanno se­gnato la stagione della contestazione nelle varie società progredite, e nel nostro Paese in maniera particolare. Perché il giudizio sulla contestazione del ’68 anche noi lo abbiamo accompagnato o con una eccessiva comprensione anche delle co­se che non erano comprensibili, o invece con­ia cancellazione delle motivazioni forti che hanno fatto esplodere quel fenomeno. La contestazione è stata oggettivamente, in­dipendentemente dalle motivazioni, una ri­bellione alle forme di democrazia partecipata all’interno della gestione del potere delle isti­tuzioni. Così, la domanda di partecipazio­ne reale in una società cresciuta ancora oggi non ha risposta. Noi siamo ancora in pre­senza di questa crisi. E anche chi tra di noi — lo dico a Fontana, che è quello un po’ più cristallizzato su questa formula — ritiene che oggi esistano le condizioni per riprodurre una solidarietà tra le forze politiche, con ri­ferimento alle culture tradizionali delle for­ze politiche, io credo che insegna una illu­sione che non ha riscontro nella realtà. Il processo di divaricazione crescente, anche tra partiti che concorrono a formare la stes­sa coalizione, non è legato all’umore o al temperamento delle persone, ma alla diver­sa strategia politica che ormai sottende le proposte dei partiti, compresi quelli che dan­no vita insieme a forme di governo. Questo è il dato su quale la Democrazia Cristiana deve riflettere per non correre il ri­schio, se non di andare all’opposizione, di trovarsi comunque all’angolo senza che ci sia uno scontro vero tra proposte politiche di­verse nel nostro Paese. Io so che voi, soprattutto voi di Forze Nuo­ve, ma anche tanti amici dell’altra sinistra, paventate il rischio che la Dc possa diventa­re partito moderato. Secondo me questo è un pericolo che non c’è. La Dc corre un ri­schio diverso, che è quello di scomparire, non di diventare partito moderato. Ma un partito popolare — e la Dc è un partito po­polare — se rimane vivo questo rischio non lo corre. E un partito popolare è tale se si radica nella società come strumento espres­sivo della pluralità degli interessi in con­trasto.

La Dc non sarebbe partito popolare se fos­se solo il partito dei disoccupati. Voglio di­re che non è la qualità dell’interesse a carat­terizzare un partito come forza popolare, ma è la capacità di rappresentare la pluralità de­gli interessi. Qui è stata detta una cosa vera: che la nostra società si è corporativizzata e, quindi, la politica sta diventando sempre più estranea, mentre noi con le nostre giacula­torie rischiamo di aggravare questo sistema se non correggiamo i meccanismi entro i quali avvengono le decisioni politiche con ri­ferimento ai processi sociali. Un partito popolare è tale se rappresenta in­sieme gli interessi costituiti, anche quelli for­ti, e le speranze, non solo gli interessi debo­li, degli altri cittadini. La grande lezione sturziana è questa. Noi sembriamo a volte aver­lo dimenticato: la forza del partito popola­re sta nell’utilizzare gli interessi forti come presupposto per una risposta alla speranza dei deboli, trasformando questa speranza in diritto. Perciò Sturzo e De Gasperi hanno parlato sempre di democrazia possibile, non di democrazia con altri aggettivi. Sapendo che è un processo che continua: le trasfor­mazioni che intervengono risolvono un pro­blema, ma proprio la soluzione di quel pro­blema ne genera altri che la politica è chia­mata a risolvere.
È in ordine a questo processo, caro Lello Lombardi, che le istituzioni diventano momento di garanzia. Non esistono le istituzioni che si sostituiscono ai processi della società. Le istituzioni, certo, in un dato momento si identificano con i processi nella società, ma la loro funzione è la garanzia, perché la evo­luzione cambia continuamente i termini del rapporto.
Per questo la concezione della politica che hanno i cattolici popolare è diversa da quel­la borghese, liberaldemocratica che assume alcune conquiste come le conquiste da con­servare comunque, perché rispetto al passa­to hanno risolto un problema, senza porsi però problemi del futuro. Ed è diversa dalle concezioni marxiste, che rispetto alle diffi­coltà compiono la stessa operazione, ma in maniera opposta, ipotizzando un tipo di so­luzione definita e tentando di imporla alla società, indipendentemente dal grado di ac­cettazione di quella soluzione da parte della società.
La democrazia è invece un processo conti­nuo e le istituzioni debbono garantire que­sto processo. Ora, la mia impressione è che, in presenza di un distacco sempre più forte tra i meccanismi di decisione politica e i pro­cessi sociali reali, un po’ tutti i partiti, tutti, esclusa la Democrazia Cristiana, giocano a lasciare inalterato il momento di crisi. Con­divido l’opinine di Bodrato su questo. Al­cuni ipotizzano di realizzare nel nostro Pae­se un passo avanti sul piano del processo democratico utilizzando formule schematiche inutili: vecchio-nuovo, conservazione-pro­gresso, clericali-liberali. Le formule sono di­verse, i fronti di liberazione si inventano, perché i nemici si descrivono, non sono quel­li reali, non c’è lo scontro politico che si ri­flette come proiezione dello scontro sociale. Questo è un rischio per la Dc, se noi non ci facciamo carico di rimettere in moto il pro­cesso di funzionamento dei meccanismi del potere, intendendo le istituzioni come i mec­canismi del potere diffuso. Infatti noi ri­schiamo di saldare all’insoddisfazione della gente — vorrei dirlo a Donat-Cattin, pei che mi pare che lui ha colto già questo proble­ma — il desiderio alternativista del Partito comunista e l’indicazione socialista della ele­zione diretta del capo dello Stato come so­luzione istituzionale.
In realtà è l’alternativa del desiderio, ma che può diventare l’alternativa possibile. A me non basta, rispetto a una tale eventua­lità, fare un Consiglio nazionale e votare al­l’unanimità che siamo contro l’elezione di­retta del capo dello Stato. In politica occupa lo spazio chi propone, non chi nega. In un mercato in cui tutti vendono un solo dentifricio si ha voglia di dire che non è buono. La gente compra il dentifricio che c’è. Poi esiste qualche sofisticato che non si lava i denti, però, insomma, il dentifricio è solo quello presente.

Ecco allora che, in presenza di questo dato, la connessione istituzione-ripresa dell’inizia­tiva politica diventa molto stretta. Non solo perché noi pensiamo ad un modello istitu­zionale pluralista, ma perché noi crediamo ad un sistema di istituzioni diffuse. Anche negli anni ‘50 — Gerardo Bianco lo sa — io non ho mai patito la suggestione marxista, sono rimasto immune da questa tentazione. E cercavo di trovare le risposte politiche sem­pre sul piano del pluralismo istituzionale, perché la democrazia è forte quando il po­tere è diffuso nella società. E il potere diffuso nella società deve trova­re istituzioni che lo garantiscano. La non identificazione con nessun modello, per me non è mai stata qualcosa di riduttivo rispet­to ai processi di cambiamento, perché era in realtà la possibilità del cambiamento conti­nuo. Sempre chi ipotizza un modello defi­nito come la soluzione, di fatto o compie un’astrazione, o comunque pone un limite al divenire della storia. In questo c’è anche la nostra concezione culturale e religiosa. Perciò io credo al pluralismo istituzionale. Alle volle, è vero, io posso sembrare meno attento agli strumenti concreti perché que­sto pluralismo si realizzi. Non è cosi, però. Io dico che il problema è la stabilità del go­verno: e ritengo che non ci sia una soluzio­ne ottimale per ottenerla. Esistono varie so­luzioni. E la soluzione migliore è quella che ha il massimo consenso di chi la pratica. Cioè, quando l’obiettivo è comune, lo stru­mento più idoneo è quello che raggiunge il maggior consenso.
Questo non è un fatto limitato alle istituzio­ni. Non si chiama un gruppo di professori di diritto costituzionale per ridiscgnarc il plu­ralismo istituzionale adeguato alla società trasformta. È sempre la politica, è sempre la indicazione politica a creare il fatto che poi il diritto è chiamato a garantire: ex fac­to, orltur ius.
Ma questo ancora non basta. Le istituzioni debbono garantire momenti più larghi di partecipazione, ma per coprire il rapporto tra istituzioni e società c’è bisogno del ruo­lo del partito come forma di organizzazione degli interessi. Di un partito forte e vitale.

Condizioni che rappresentano per me una preoccupazione, se Donat-Cattìn me lo con­sente, molto più forte della legalità interna. Dirò solo questo. Quando c’era qualche il­legalità, il partito ha tentato un raccordo for­te con la pubblica opinione, lo abbiamo vi­sto nelle elezioni amministrative dell’85. Adesso mi auguro che si possa ripetere quel risultato, anche se i sintomi, i segnali, i fatti che ci sono di fronte credo che creino in cia­scuno di noi notevoli preoccupazioni. Per la Democrazia Cristiana esiste questo problema: che essa è partito popolare, non se noi lo recitiamo all’inizio di ogni discor­so, o lo scriviamo nello statuto. La Demo­crazia Cristiana è partito popolare se i mili­tanti, non gli elettori, i militanti della Demo­crazia Cristana sono la proiezione dei biso­gni, delle speranze, degli interessi radicati nella società: ecco un problema che dovrem­mo discutere con molla serietà, anche ai fi­ni della definizione della nuova legittimità di rappresentanza all’interno della Democra­zia Cristiana.
Io avrò commesso tanti errori, lutti, ma cer­tamente non quello di non aver avuto sem­pre presente questa esigenza. E la mia preoc­cupazione di questi ultimi mesi è che il par­tito, per com’è, com’è organizzato, come si è richiuso, come si sta richiudendo, rischia di diventare sempre meno la voce degli inte­ressi di queli che si riconoscono nella Demo­crazia Cristiana.
Quindi bisogna rifare il partito popolare, non nel senso di inventare un nuovo parti­to. Quando si parla di una, o due, o tre de­mocrazie cristiane io rispondo che la Demo­crazia Cristiana è una, perché il giorno in cui fossero due non ci sarebbe più nessuno. Né io ho mai immaginato, nò immagino che un partito popolare, radicato nella società, consistente come la Democrazia Cristiana, possa essere un’elite di intellettuali. Il pro­blema è risolvere la capacità di direzione po­litica del partito, fino al raccordo con l’ulti­mo militante.
Da questo punto di vista l’insegnamento di Moro è insostituibile. Moro può essere ac­cusato dì lentezza, però aveva un disegno po­litico. Moro poteva avere carenze su singole operazioni progettuali, provvedimenti di go­verno particolari, ma nella sua testa è stata sempre presente una ipotesi strategica com­plessiva del processo democratico, che ri­guardava la Dc e l’intero sistema politico: l’attenzione di Moro agli altri partiti aveva questo significato.
Un partito ha la possibilità di diventare ege­mone quando, con riferimento alla storia e alle proposte degli altri partiti, è in condi­zioni di indicare la via dì marcia. La solidarietà si fanno su questo dato e su questo dato si può scoprire anche la solitu­dine. Le solidarietà senza motivazione sono un sintomo di preoccupazione, non un sin­tomo di forza. Moro ci ha insegnato questo e noi dobbiamo recuperare questa lezione, ritrovando, amici di Forze Nuove, la grande lezione del popolarismo cattolico, del po­polarismo sturziano. Questa lezione, in fon­do che cosa ci ha detto? Che in un processo democratico, la partecipazione dei cittadini non può esaurirsi nel momento del voto, de­legando la gestione del potere a chi è man­dato a guidare le istituzioni. Il partito popolare è lo strumento di salda­tura continua tra il mandato dato e il riscon­tro che si fa, non in termini giuridico-formali, ma in termini politici. Le sezioni, le strutture del partito, la capacità di elabo­razione del partito sono lo strumento attra­verso il quale il singolo, il cittadino, l’elet­tore, il militante concorre, con una verifica permanente delle scelte compiute da chi nelle istituzioni ha il mandato espresso dal corpo elettorale. Sono tre momenti, istituzionale, politico e sociale, che si saldano insieme, an­che se hanno una loro distinzione. Una riflessione vorrei fare anche sullo Sta­to sociale. Adesso che anche i comunisti sem­brano averlo capito, vorrei che fosse chiaro anche tra di noi. Io non ho mai immaginato, non è scritto da nessuna parte e non l’ho proposto mai da nessuna parte, che bisognava operare il ri­sanamento eliminando la tutela degli spazi sociali.
Tra l’altro è un’operazione, secondo me, im­possibile anche per chi volesse farla, perché la tutela degli spazi sociali coincide col mas­simo di sviluppo delle libertà individuali nel nostro Paese. Non sarebbe un’operazione semplice per chi volesse tentarla e, questo sì, aprirebbe un processo di involuzione demo­cratica.
Io da tempo ho cercato di compiere una di­stinzione, che adesso, mi pare, sta diventan­do più comprensibile. La distinzione tra l’og­getto, la tutela del bisogno e gli strumenti. La mia domanda (ma mi sembra che sia an­che la vostra, tanto che potremmo discuter­la in convegni comuni invece che divisi), la mia domanda è: come, all’interno dell’ordi­namento, possa ridursi lo spazio di burocra­tizzazione che genera l’inefficienza, per non parlare d’altro, e conservare invece la tutela del bisogno. Con molta franchezza, avendo individuato il problema, io non mi sentirci di dire: que­sta è la soluzione istituzionale che lo risol­ve. Avevo pregato De Rita, negli anni pas­sati, di simulare delle forme tecniche di so­luzione di questo problema. E mi sembra che con Donat-Cattin avevamo trovato un pun­to di incontro, proprio a proposito del de­creto fatto sui cosiddetti tickets. Con Donat-Cattin avevamo trovato l’intesa secondo me giusta, (di questo nessuno ha parlato, si è parlato solo della parte fiscale del decreto, non della proposta strutturale innovativa) di anticipare con alcune norme la modifica del sistema dell’organizzazione sanitaria per sol­lecitare il Parlamento a provvedere poi con legge ordinaria alla sistemazione definitiva del nuovo servizio sanitario. Adesso leggo che a Bologna il Partito Comu­nista, che negli anni passati si era impiccato su una concezione tutta burocratizzata del­la sanità, decide di muoversi proprio nella nostra logica, proponendo un criterio che fra l’altro è contenuto nella legge di riordino dei poteri locali. Una legge di grande valore innovativo, perché non ipotizza l’esercizio di tutte le facol­tà da parte dell’ente locale, ma affida al Co­mune la possibilità di organizzare i servizi in rapporto ai bisogni della comunità, la­sciandolo libero di farlo nella maniera più efficiente. Per cui può ricorrere all’azienda pubblica se non c’è chi gestisce un determi­nato servizio, ma se c’è chi lo gestisce lo af­fida, in termini di convenienza economica, a chi sa farlo.
Scoprire che le affissioni possono essere af­fidate a un privato e non a otto impiegati del comune, i quali anziché affiggere i manife­sti fanno cose diverse, scoprire questo non è difficile.
Il problema è operare una distinzione tra og­getto, o bisogno da tutelare, e strumento. Né io immagino che noi dobbiamo stabilire con una norma che il servizio debba essere fatto per forza da privati.
Mi e capitato di dire, in alcune circostanze, ma soprattutto al Convegno dell’Anci a To­rino, l’anno scorso, che così facendo noi avremmo la possibilità, amici della Demo­crazia Cristiana, di recuperare un altro va­lore forte della tradizione dei cattolici. La esperienza delle Casse di Risparmio e delle Opere Pie, in fin dei conti, era proprio la uti­lizzazione di un patrimonio in funzione del­la soddisfazione di un bisogno senza fine di lucro.
E paradossalmente, potremmo creare nel mercato una competizione tra chi organizza il servizio per speculare e chi organizza il ser­vizio in funzione dell’interesse dei cittadini. Il capitale pubblico, allora, non assume il si­gnificato di alimento della burocratizzazio­ne inefficiente, ma dà vita ad un’azienda che, non avendo fini di lucro, ha la possibi­lità di utilizzare le risorse in più, che il pri­vato certamente sottrae per il profitto a cui mira, in maniera da qualificare meglio il ser­vizio. Ma la regola dell’efficienza viene da­ta dall’offerta in concorrenza, non è data dalla pubblicizzazione di gestione. Una regola deve sempre esserci. Se fosse ve­ro che il mercato da solo risolve tutti i pro­blemi, non si riesce a capire perché il mer­cato selvaggio quando c’era ne ha creati tan­ti, provocando anche il prevalere di risposte sbagliate, come quelle del marxismo. E allora, amici della Democrazia Cristiana, amici della sinistra democratica cristiana, credo che questo può essere, almeno questo, un punto di accordo. Poi vedremo come ge­stirlo, poiché io sono convinto che le socie­tà, più si sviluppano e più questi problemi fanno emergere, scoprendo di volta in volta nuove forme di bisogni non tutelati. Non c’è una politica economica che come ta­le, di per sé, risolve i problemi di chi è emar­ginato dal processo di trasformazione. Tut­ti i processi di trasformazione anzi hanno la tendenza a generare nuovi fenomeni di emar­ginazione.
Il ruolo dei partiti popolari allora è garanti­re il processo democratico, reimmetlendo continuamente quelli che il processo di trasformazione emargina al centro del sistema, senza la pretesa che questo avvenga una vol­ta per sempre, ma scegliendo sempre tutti quelli che sono emarginati e tutelandoli al­l’interno di questa visione generale. Questa era la concezione del partito popo­lare di Sturzo, e questa è la ragione di fon­do per cui la Democrazia Cristiana è, anco­ra oggi, una forza centrale nell’equilibrio po­litico del nostro Paese. Queste motivazioni però sì sono notevolmen­te disperse nella nostra convinzione e nella nostra memoria. E questo tipo di impegno appare spesso sempre più lontano dalla quo­tidianità dei nostri comportamenti politici. Io credo che tutto il partito debba recupera­re questa capacità. Però credo che se come sinistra ci facciamo carico di assumere un’i­niziativa che aiuti il partito a ritrovare que­sta capacità, noi avremo dato un aiuto no­tevole non solo alla sinistra, nè solo alla De­mocrazia Cristiana: noi avremo dato un con­tributo a far uscire il Paese da una crisi gra­ve, probabilmente più grave di quanto noi non immaginiamo.

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